Cassetti&Contenitori – L’origine della fotografia

L’annuncio della Kodak era stato perentorio: “entro sette anni la produzione di pellicole negative e invertibili verrà dismessa”. Correva l’anno 1995 e la riunione dei professionisti cittadini era stata indetta dalla casa gialla di Rochester per tentare d’indirizzare l’affezionata clientela verso il sistema primario messo sul mercato da Kodak, la loro nuova fotocamera digitale DCS. Era la prima a comparire sul mercato con la premessa di essere il futuro prossimo venturo. Nasceva un moderato interesse per la tecnologia digitale, nonostante manchevolezze tecniche e nessuna presenza sul mercato dei grandi marchi di fotocamere che sembravano attendere gli avvenimenti. Aspettando il “nuovo miracolo” mi appassionavo sempre più alla “barbara” realizzazione di immagini fotografiche senza fuoco perfetto, colori saturi e gli standard necessari per completare immagini professionali perfette.

Le macchine giocattolo o meglio quelle in plastica (Diana e Holga) con una limitata, quasi nulla, possibilità di focheggiare e un sistema di lettura della luce aleatorio diventavano sempre più compagne di viaggio. Il sacchetto di plastica era il luogo adatto per muoverle con un corredo di pellicole 120, taglierino, cartone per tenere in posizione i rulli e nastro adesivo nero, adatto a coprire le infiltrazioni di luce.

Il grande formato 20×25 centimetri usato con obiettivi antichi, reduci dalle mani dei bisnonni fotografi, mi affascinava al punto di trovare e comprare sul mercato ottiche usate agli albori della fotografia. Le piane in bianco e nero di qualità medio bassa erano il giusto materiale per sperimentare il “ritorno” all’essenza nel creare immagini.

Le lenti singole in montature d’ottone con il nome del produttore inciso a mano sul barilotto, spesso senza diaframmi e con indicazioni molto rudimentali sul fuoco, mi obbligavano a pensare fotografia. La palestra per esercitare il mio ritorno agli albori della produzione fotografica sono stati gli orti, coltivati o abbandonati, intorno a casa, ed uno spiazzo erboso da anni preda delle piante dopo aver servito come immenso stendino ai “lavandari de Aesa”.

Cavalletto, fotocamera in legno, qualche telaio carico di pellicole facilmente ammortizzabili, esposimetro e la volontà di sperimentare, annotando nome delle ottiche ed eventuali dati tecnici. I risultati sono stati adeguati a quanto cercavo: trovare le immagini con la semplicità della messa a fuoco e lasciare alla luce e alle ottiche spartane la resa dei conti. Le fotografie prodotte sono dei semplici esempi di cosa si ottiene con una formula antica e per certi versi primitiva. Ricca, però di soddisfazione, nel constatare come l’immagine, con un controllo definito dai mezzi spartani degli albori della fotografia, diventi una continua sorpresa.

Le immagini sono state messe a fuoco e le lenti lasciate senza nessuna forma di diaframma. Le pellicole piane sviluppate in bacinella e stampate a contatto su carte a tono caldo. Il fascino della semplicità diventerà nella mia opera di fotografo una costante che si realizzerà in una mostra “Arborea” presentata nel 2005.

Le fotografie sono parte del mio archivio di stampe dedicate agli esperimenti con tecniche semplici. Le scansioni sono state eseguite direttamente dalle stampe di piane 20×25 centimetri.

 

Leave a Reply